Intervista a Piero Lissoni allo Showroom Porro di Milano
Uno dei primi giorni di Salone del Mobile 2016 siamo stati invitati a passare dallo showroom Porro, gli impegni sono sempre tantissimi quella settimana, ma siamo riusciti ad organizzare l’incontro con uno dei designer storici italiani, Piero Lissoni, che con il suo studio Lissoni Associati fondato nel 1986 insieme a Nicoletta Canadesi finora si è occupato di progetti d’architettura, disegno industriale e grafica, dall‘arredamento agli accessori, dalle cucine ai bagni, dall’illuminazione alla corporate identity, pubblicità, cataloghi e siti web per hotel, showroom, stand fieristici, case private, negozi e barche. Qui la sua visione del design di oggi, in un legame imprescindibile con l’industria italiana.
Come nasce la sua storia lavorativa con Porro?
La collaborazione con Porro nasce quasi trent’anni anni fa, e in un modo molto semplice, facendo prove, conoscendosi e dialogando, a volte ci si scontra e poi si decide di andare avanti, e fino adesso è andata avanti da quasi 30 anni.
Qual è esattamente il suo ruolo in azienda?
Io sono art director, curo tutto quello che esce da Porro, tutto è disegnato da me: grafica, stand, oggetti, e sistemi.
Cosa differenzia Porro da altre compagnie dello stesso settore?
Noi realizziamo i prodotti per primi, tutto quello che vede noi la facciamo prima degli altri, e tutti arrivano un po’ in ritardo sulla argomento.
Lei lavora con un team?
Nessun lavoro può essere fatto da una persona sola, abbiamo un team molto forte all’interno dell’azienda, ed anche uno studio, e ci confrontiamo quotidianamente, è una discussione, non c’è l’idea romantica di svegliarsi al mattino con un’idea, e’ un processo in sviluppo costante.
Quindi secondo lei un’azienda di arredamento non potrebbe esistere senza un dipartimento di sviluppo creativo?
Ogni azienda ha un team interno, non è possibile per l’azienda non sviluppare pensiero, il team interno è, potremmo dire, l’intelligenza dell’azienda, senza questa intelligenza non si potrebbero fare i prodotti. Lissoni Associati è il mio studio a Milano, NY, e Tokyo, ma la parte milanese è quella che gestisce il peso maggiore di design, noi progettiamo le parti concettuali, ma senza un ufficio interno creativo non andiamo da nessuna parte. La bellezza di essere designer è legata alla qualità dell’azienda, senza di essa non c’è qualità design. L’azienda senza team creativo è puramente ingegneristica, e senza un’anima, se l’azienda non e’ in grado di ragionare in questi termini non c’è designer che tenga.
Quale delle discipline tra architettura, prodotto, e grafica che tratta nel suo studio di design la fa sentire più coinvolto?
Io nasco come architetto al Politecnico di Milano, siamo stati cresciuti ad essere interdisciplinari, ad usare una metrica umanistica nella nostra professione, quindi non ho una precisa preferenza, io amo l’architettura, però mi piace lavorare con lo spazio e con gli oggetti che vanno dentro a questo spazio, il continuo cambio della scala secondo me è la bellezza di essere architetti.
Non crede ci potrebbe essere una perdita a livello progettuale nel non essere specializzati?
Il modello anglosassone dell’iper specializzazione ha sicuramente migliorato o esasperato la qualità di progetto, ma io rimango legato al mio modello, che è un modello umanista, non mi interessa essere bravissimo in tutto, mi interessa essere bravo o quantomeno sostenibile su tutto.
Il modello anglosassone non hai mai previsto storicamente figure contaminate, ibride, ha sempre cercato di portare alla specializzazione, di fare magnificamente bene una cosa, il che funziona in paesi con una mentalità molto ordinata, ma in paesi come i nostri, che di fatto hanno fatto nascere credo un impianto culturale molto forte, siamo preparati per essere virtualmente disordinati, io preferisco il secondo sistema al primo. Un medico che sappia operare perfettamente le dita di una mano, ma da quel momento in avanti se hai la febbre non sa da che parte prenderti, mi preoccupa. L’iper specializzazione si trova anche nell’architettura e nel design inglesi, e va bene, ma io preferisco un’altra strada.
Secondo lei l’industria porta valore a questa contaminazione?
Assolutamente si, se tiene conto però, ad esempio, dei designer inglesi, prendiamo solo loro in esame, non prendiamo tutto il mondo ma solo i designer inglesi, dove lavorano? In Italia. Con quali aziende? Italiane. Queste sono domande che qualche volta ci si dovrebbe porre, saranno iper specializzati, ma se non ci fosse la qualità industriale, ideale, creativa delle aziende italiane loro non sarebbero emersi. Jasper Morrison è stato scoperto da Giulio Cappellini, Tom Dixon e Mark Newson anche.
Cosa pensa del fatto che i designer famosi oggi siano per lo più inglesi e non italiani come un tempo?
Le aziende italiane non sono scioviniste e cercano qualità dove la trovano. Se trovano qualità negli Stati Uniti la prendono, se trovano qualità (intendo intellettuale) in Germania la prendono, se la trovano nel Regno Unito la prendono, se non la trovano in Italia non la cercano. Questa della qualità è una meraviglia che succede nel sistema di design italiano, a differenza dei francesi che se non sei francese con loro non lavori, e un pochino anche con aziende inglesi e tedesche, in Italia se sei tedesco e lavori bene vieni preso. C’è un senso di meritocrazia molto forte.
Un’ultima domanda, lei ha un qualcosa che la ispira giornalmente?
La vita basta e avanza, è una buona fonte di ispirazione, e soprattutto è spaventosamente creativa, quindi ogni minuto ne inventa una nuova, basta quello.